Tutta la vita di Luigi Di benedetto fu immune da volgari aspirazioni che potessero turbare la sua serena operosità nella casa di via Alvino in Napoli, dove riusciva ad astrarsi dal mondo circostante e diveniva con estrema naturalezza soltanto se stesso. Fu un esempio di eccellente interpretazione del mestiere di filologo.
Nessuna mondanità poté turbare il ritmo della sua ricerca filologica. Era un ritmo lento, non pigro, ma intenso: come aveva intuito Friederich Nietzsche, il ritmo lento è l'autentica scansione della dura fatica filologica. Gli Stilnovisti che prelusero al Dante delle opere giovanili o delle confessioni liriche del Petrarca erano i suoi inseparabili ospiti. Il tavolo di lavoro era il medesimo della mensa.
I libri erano pochi, quasi a esorcizzare stravaganze e distrazioni. Da quella consuetudine nacquero le edizioni nella prestigiosa serie degli "Scrittori d'Italia" : I rimatori del Dolce Stil Novo (1939), Poemetti allegorico didattici del secolo XIII (1941), La leggenda di Tristano (1942). Tali edizioni costituivano per lui un orgoglio maggiore di quello che gli era derivato dai libri dell'UTET.
Della forma testuale il professor Di Benedetto si godeva ogni sillaba, ogni suono e le voci di Cino e di Guido popolavano i suoi pomeriggi. Era l'oasi ricca di una sola libreria, non diversa da una credenza: al di là del vetro opaco erano mitemente schierati i suoi auctore.
Nella chiarezza dello sguardo c'era la nuda e solenne solitudine della terra d'Abruzzo, che molto amò.
Nella sottile e acuta lettura dei testi egli si ritrovava, dopo la milizia mattutina, prima alla Nunziatella, dov'è ricordato ancora come un eroe della scuola, un educatore incomparabile, e successivamente nelle nostre Università, la neonata di Salerno e l'antica di Napoli, in cui esercitò la libera docenza in lingua e letteratura italiana. Come si sa, oggi tale istituto non esiste più, perché fu distrutto con furiosa stoltezza e mai rimpiazzato: gli impazienti legiferatori non seppero riformarlo e lo annientarono senza la consapevolezza di abolire un legame fondamentale tra il Liceo e l'Università.
Non tócco dal carrierismo, il professor Di Benedetto era pago di essere stato preziosamente salutato maestro filologo da maestri straordinari: Ernesto Monaci e Michele Barbi.
Oggi non esiste più neppure la collezione laterziana degli Scrittori d'Italia fondata dalla concordia di Benedetto Croce e giovanni gentile.
La sua discrezione, la sua parsimonia, la sobrietà nella vita familiare e civile non gli impedivano di esortare al di fuori delle aule i giovani che il virgilio figlio gli presentava come compagnui di studi universitari. Fra costoro ebbi il privilegio di essere. Il professor Di Benedetto si tratteneva volentieri e brevemente con noi, dopo aver messo da parte l'auctor che aveva tra le mani: è inutile dirlo, non era mai un saggio critico o non, ma ogni volta un testo del secolo XIII, il secolo senza Roma di Toffain, o del secolo XIV. Ci ammoniva a leggere non una sola volta i testi che vogliamo veramente intendere e spiegare.
La sua casa al vomero - in quel tempo ancora un villaggio - non distava molto dall'altra delgrande asceta storico Adolfo Omodeo, dal rapido destino. Il contemporaneo cugino Corrado Mascetta, raffinato cultore di lettere classiche e maestro di generazioni nel Liceo Sannazzaro, pur solo aveva un temperamente ironico e un sorriso aperto, quasi mondano. Pur in mezzo al cinguettio festoso delle figlie e del figlio, il professor Di Benedetto riusciva a vivere come un eremita. Non è un paradosso, perché nei momenti consueti e puntualmente ricorrenti egli si faceva cenobita senza smettere di essere parco nei gesti e nelle parole.
Ricordo la sua figura alta, la semplicità estrema del carattere, la sicura imperturbabilità, specialmente nella natia Introdacqua, nel luglio fatidico del 1943, quando, insieme con la fine del regime e l'ultimo ruggito di Giovanni Gentile sul Campidoglio, gli Alleati sbarcarono sulla nostra terra. Nel dopoguerra il professor Di Benedetto contribuì alla rinascita della patria, assolvendo con umiltà e dedizione il suo compito di insegnante e educatore. Il vecchio combattente della prima guerra mondiale profondeva le energie e la fiducia nella storia italiana dialogando con i giovani mortificati dalla sconfitta e avviliti dalle macerie. Una profonda coscienza etica lo sostenne fino alla fine.
Marcello Gigante